110: Il pennarello rosso
Invece eccomi, sono qua, materia che si forma nelle mani di un artista. Lo osservo all’opera, non tutti hanno il privilegio di accedere all’intimità dell’atto creativo. Di lui non so molto. Conosco gli occhi miti, che adesso mi guardano con concentrazione. La voce un po’ meno, è uno di quegli uomini che parlano di rado, solo se strettamente necessario. E la mano? Bè, quella l’ho osservata, nei giorni: forte, sicura, incarna con precisione la regia di ogni lavoro.
Una settimana fa vi ho raccontato del mio animo semplice. Tacendo, però, sulla mia curiosità. Perché sono curiosissima, accidenti: ogni centimetro di quest’armatura in cotone vuole sapere con quali disegni quell’uomo mi abbellirà. Forse una cascata di fiori colorati, di quelle che adornano le forme femminili nei capolavori botticelliane. Oppure un tetris di rombi, cerchi, quadrati – siamo negli anni Settanta, queste cose piacciono, no?
Niente, mi sbaglio. L’artista e il suo pennarello mi percorrono unicamente con gesti continui, tracce sicure e equidistanti. Linee parallele. Mi arriccio nella mia delusione, diverrò un gessato come tante altre. O forse no? C’è troppa sicurezza in quegli occhi, troppa determinazione. Lui mi guarda, ma sembra non vedermi nel presente. Cerca quello che sarò domani, e in quegli occhi capaci di sciogliere la neve scorgo una visione di me nel futuro. E di anonimato, credetemi, non ne vedo traccia.
Bisogna fidarsi degli artisti, lasciargli fare. Il pennarello continua a farmi arrossire, il cotone diviene una cancellata rigorosa e minimale. Nella penombra mi affido al percorso che conduce alla rinascita.
Fino a quando una voce lontana non spezza il silenzio. Lo stanno chiamando, pronunciano il suo nome.
Pierluigi. Si chiama Pierluigi