Bordocampo: Ray Giubilo
Posso accendere il ventilatore, vero? Fa un caldo, qui
Non facciamo in tempo a raggiungerlo in videochiamata e subito Ray Giubilo ci coinvolge con la sua disarmante semplicità. Nato ad Adelaide, in Australia, ma trasferitosi in Italia in giovanissima età, Ray esordisce come fotografo fashion: alla fine degli anni Ottanta, però, viene introdotto al reportage sportivo, affermandosi come cantore del tennis per immagini. Pose plastiche, volti espressivi, giochi di luci e di ombre: i suoi scatti compongono un lessico personalissimo, raccontando la disciplina a 360°. In occasione della Giornata Mondiale della Fotografia, dialoghiamo con un grande autore, inaugurando una nuovissima rubrica di interviste.
Dai servizi posati e patinati al dinamismo del campo da gioco: raccontaci come è iniziata la tua carriera, Ray.
«Ho iniziato giovanissimo, negli anni Ottanta c’è stato un vero e proprio boom dei magazine di moda. Ero però anche appassionato di tennis, gioco che praticavo. Nell’89 rincontrai a Melbourne un vecchio amico che lavorava per Matchball e che mi procurò un pass per gli Australian Open. Da quel momento il resto è storia. Da sempre cerco di contaminare sport e glamour, dando attenzione ai capi e ai gesti: perché non sempre un colpo va a segno, ma la bellezza della posa rimane.»
La tua attività (Ray è anche Staff Photographer de Il tennis italiano, la più longeva rivista sull’argomento, ndr) ti ha inevitabilmente portato a conoscere (e immortalare) gli storici look FILA. Quale pensi sia il valore aggiunto che il Brand dà alla pratica tennistica?
«Ho sempre adorato FILA, il suo stile unico, in continua evoluzione che ha sempre saputo valorizzare gli atleti. Basti pensare all’eleganza di Adriano Panatta o alla grinta di Kim Clijsters. Il mio lavoro non consiste solo nell’identificare l’azione, ma anche nell’esaltare un dettaglio estetico: ad esempio una scarpa a mezz’aria circondata da pezzetti di terra e ciuffi d’erba.»
Analogico VS digitale: l’annoso dibattito.
«Le reflex non sono il male, ci mancherebbe, è la naturale evoluzione della tecnologia. Penso però che la facilità con cui oggi scattiamo e condividiamo foto ci conduca a pensare di essere tutti fotografi. La verità è che ognuno di noi può fare una bella foto; farne 100 belle, però, è un’altra storia. Nel mio lavoro è andato in disuso, ma dell’analogico mi mancano i tempi dilatati, le attese. Un pomeriggio, nel ’98, ero a Melbourne, scattavo da un tetto: a un certo punto, alle cinque e mezzo del pomeriggio, ho individuato la lunga ombra di una tennista allungarsi sul campo nell’ora più magica della giornata. Ho scattato la mia foto e portato il rullino a sviluppare, per la stampa finale ho dovuto attendere sino al mattino dopo. Ecco, mi manca quella curiosità, l’eccitazione che tieni dentro di te per tante ore.»
Quali sono i tornei più ‘fotogenici’?
«Parigi e Wimbledon sono senza dubbio i miei preferiti. Aggiungerei il Centrale di Roma. Il Foro Italico è qualcosa di unico: ha saputo rinnovarsi tecnologicamente, pur mantenendo un allure classico e fascinoso.»
Nel 2006 David Foster Wallace, l’ultimo grande innovatore della narrativa americana, pubblica Il tennis come esperienza religiosa, mini-saggio che trasforma una cronaca sportiva in un elogio del tennis, descritto come evento dai contorni mistici. Qual è la tua personale definizione di questa disciplina che – non con le parole, bensì tramite immagini – anche tu hai imparato a narrare con poesia?
«Conosco bene il libro di Wallace, che amo al pari de I gesti bianchi di Gianni Clerici. Ritengo che il tennis sia uno sport nobile, nel quale i due avversari non si sfiorano né toccano mai. La dinamica che porta due persone ad imparare a conoscersi, a studiarsi per ore per fare una cosa alla fine banalissima: colpire una pallina. È una dimensione psicologica, una raffinata partita a scacchi.»