SI ALZA IL VENTO

8 Aprile 2022

PRIMO CAPPELLO

L’inverno è finito.

Lo dicono alla radio, lo ricorda il telegiornale, persino voltando pagina sul calendario i fiocchi di neve cedono il posto ai mandorli in fiore in un battito di ciglia. Insomma, non ho più scuse: devo uscire di casa.

“Anita, non puoi trascorrere i tuoi pomeriggi a fare nulla sul letto! Guarda che sole là fuori, esci, goditelo”. Mamma ha ragione: la finestra, che incornicia il paesaggio come la fotocamera di un cellulare, si apre su una giornata di sole spietato. Fa caldo. Persino io, che amo allungarmi le braccia con maglioni oversize, oggi indosso una maglietta leggera. “Fai una passeggiata, comprati un gelato, basta che riemergi dalla cameretta: sii un fiore, sboccia”. Ha iniziato un corso di scrittura creativa online, sentite com’è ispirata.

Esco alle mie condizioni: con questo cappello alla pescatora FILA calato sugli occhi nessuno mi vedrà, nessuno incrocerà il mio volto di talpa riemersa dalla tana. Tesa larga, tessuto blu pesante, un grosso logo appuntato alla maniera delle medaglie al valor militare: perfetto.

C’è gente in giro, tutti si sentono fiori in attesa di sbocciare. Ma io conosco i percorsi meno trafficati e so che dietro casa le vie che fiancheggiano il parco sono rami solitari di un albero perennemente in ombra. L’immagine perfetta per descrivere la persona che sono, insomma. Non siate tristi per me, io non lo sono: ci sono grandi vantaggi nel non essere visti. Non comporta fatica, coinvolgimento, giudizio. È quasi un privilegio, se ci pensate.

C’è il sole, ma l’inverno non è finito: l’aria si è raffreddata e ha iniziato a soffiare un vento arrogante, che mi sbuffa diretto sulle spalle. Sono uscita dal bozzolo troppo presto mamma, non è ancora tempo di sbocciare. Me ne torno a casa, pronta a far calare un nuovo sipario. Voltandomi di colpo l’aria fredda mi spettina, fa volare via il cappellino blu. Che noia, quanta fatica. Gli corro incontro finché non cade a terra, lo raccolgo, mi alzo. Senza che nemmeno abbia il tempo di metterlo a fuoco, lui mi parla.

“Mi passi la palla?”
Non può avere più di nove anni. È in fondo alla via, ha una t-shirt da calciatore troppo larga e capelli a scodella arruffati.
“Stavamo giocando e per poco il vento non trascinava il pallone fuori dal quartiere. Per fortuna l’hai fermato tu, però!”
In effetti l’aiuola vicino a me ha bloccato la fuga di un Super Tele che andava di corsa, eccolo lì.
“Allora, me lo passi?”

Allungo le braccia, le vedo scoperte dopo mesi di maglioni. Afferro la sfera gialla e con un colpo sgraziato della gamba destra la calcio in direzione del ragazzino. Atterra miracolosamente vicina ai suoi piedi. Mi sorride, io sento di possedere ancora dei muscoli.
“Grande! Ci vediamo, ciao!”

Del mio cappello non c’è più traccia, credo sia volato lontano. Premo lentamente le mani sulle guance sudate, più calde del sole che pian piano tramonta. Lui corre, corre verso l’orizzonte, il vento se lo ruba.

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